Arte e Cultura

Anatomia del dolore è un viaggio nell’intimità e nella rinascita

Scopri l’intenso viaggio di Chiara Domeniconi in “Anatomia del dolore”, tra traumi, rinascite e introspezione profonda, in questa intervista esclusiva.

Chiara Domeniconi, autrice di “Anatomia del dolore. Diario di una straordinaria donna qualunque”, ci offre un’opera intensa che miscela prosa e poesia in una narrazione viscerale e profonda. Nata a Sassuolo, Modena, Domeniconi ha dedicato gran parte della sua vita alla scrittura, alternando storie per bambini, narrativa e raccolte poetiche. Dopo un percorso di formazione alla Scuola Holden sotto la guida di Alessandro Baricco, e un’esperienza di pubblicazione variegata, Chiara è riuscita a imprimere una traccia indelebile nel panorama letterario. Con “Anatomia del dolore”, SBS Edizioni, ci porta in un viaggio tra dipendenze, traumi e rinascite, esplorando la dualità del corpo e dell’anima e ponendoci di fronte al riflesso delle nostre paure e desideri.

Quali aspetti della tua esperienza personale hai voluto mettere in luce attraverso la protagonista, specialmente riguardo la complessità della femminilità e della libertà personale?

Due in particolare, forse tipico un po’ dei figli unici. Il primo è L’egoismo, l’egocentrismo, la scarsità di empatia. A me hanno nuociuto tantissimo. Anche, all’inizio, nel mio modo e capacità di scrivere. La limitatezza di vedute, l’incapacità di mettersi al posto degli altri. E questo c’entra anche e limita tantissimo la libertà personale, sia fisica che mentale. 

Nel libro si parla molto di dipendenze, siano esse emotive, alimentari o sessuali. Cosa rappresentano queste dipendenze per la protagonista e come riflettono un disagio che potrebbe essere comune anche ai lettori?

Le dipendenze nascono da un interruzione interiore dovuta a un trauma fisico o mentale che sia esso più o meno reale non importa. Importa quello che noi viviamo in base alla nostra sensibilità. Io ho parlato del piacere come un vero e proprio “organo” che si può quindi anche ammalare e con lui la fame, la felicità, il dolore. Di conseguenza si confonde l’essere con l’avere, la confusione alla base delle dipendenze, e ci si attacca in modo morboso, malato, “dipendente” appunto a una persona, al cibo, una sostanza…può succedere a chiunque. Non in quanto difettoso o sbagliato ma in quanto essere sensibile e umano. 

L’opera alterna prosa e poesia, una scelta stilistica particolare che dona ritmo e profondità al racconto. Come mai hai deciso di mescolare questi due generi e come ha influito sul modo in cui la storia prende forma?

Questa caratteristica è un po’ mia fin dall’inizio del mio percorso da scrittrice forse perché rispecchia un po’ il mio carattere mutevole, progettuale anche, ambizioso perché no. Una decisione che secondo me questa volta si abbinava bene all’argomento che andavo a trattare, la vita, la felicità, il dolore. Noi. Cangianti, mutevoli, in continua evoluzione. Colorati e musicali. Come la vita. Mi piaceva questo tipo di movimento. Come il mondo.

Il titolo “Anatomia del dolore” suggerisce una profonda esplorazione del concetto di sofferenza. Cosa ti ha portato a scegliere questo titolo e come questa “anatomia” si sviluppa nel corso della narrazione?

Analizzare il dolore come se fosse materia carnale, viva, sanguinante. D’altro canto la felicità, la sofferenza, la rabbia…tutto viene dalla mente e dal cuore che sono fatti di carne, muscoli e sangue quindi, per provocazione, sono “ciccia”, materia tangibile anche loro. Nel corso del libro cerco di far capire come corpo e spirito siano indivisibili e l’uno indispensabile all’altro, per vivere, capire, salvarsi a vicenda. 

Hai menzionato la necessità di trasformare il dolore in bellezza e la sofferenza in comprensione. Ci puoi parlare del processo creativo che hai seguito per raggiungere questa trasfigurazione?

Più che una necessità una voglia, la mia voglia di vivere che mi ha fatto rimanere qui. Poi, essendo anche scrittrice, c’è stato il processo creativo della scrittura, di mettere per iscritto ciò che mi era successo. Che non avevo mollato, nonostante tutto. Mi ero ritrovata e avevo visto che era successo in ogni momento, ogni singolo momento della mia vita. Non avevo perso nulla. Potevo scriverlo. Perché in qualche modo l’avevo vissuto, io. Nessun altro. E questo per me era una cosa fantastica. Ero felice anche se era stata un’esperienza dura. Ero felice…

In molte delle tue opere, tra cui “Anatomia del dolore”, si percepisce un percorso di rinascita dopo la caduta. Quanto è importante, secondo te, il tema della resilienza nella narrativa contemporanea?

A me non piace né la parola rinascita né resilienza e me ne scuso. Secondo me è più importante il concetto di debolezza, troppo spesso inteso come difetto, “bullizzato”. Quando invece può essere una capacità che salva come è successo a me, nel senso dell’estrema sensibilità usata come arma anziché come tallone d’Achille. Spesso spezzarsi anziché piegarsi solo può salvare anziché uccidere. Come l’acqua che cambia forma per adattarsi a ogni terreno. Essere acqua (vapore, ghiaccio, neve) ecco più che resilienti come i metalli.

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