Arte e Cultura

“Challengers”: non solo un triangolo amoroso sul tennis

Il nuovo film di Luca Guadagnino porta sullo schermo un bollente triangolo amoroso ambientato nel mondo del tennis, che nasconde l’essenza del cinema stesso.

Challengers è il nuovo film del regista Luca Guadagnino (Chiamami col tuo nome; Bones and all), uscito nelle sale italiane il 24 aprile. La sceneggiatura è di Justin Kuritzkes, alla prima collaborazione con il regista e per il quale ha sceneggiato anche il prossimo film: Queer (2024), tratto da un romanzo di William S. Burroughs.

La trama

È il 2006 e i due amici d’infanzia, Patrick Zweig  (Josh O’Connor) e Art Donaldson (Mike Faist), vincono il doppio junior agli US Open. I due giovani sono pronti per un brillante futuro nel tennis: Art nel tennis universitario e Patrick verso una carriera da professionista. La loro amicizia non potrebbe essere più solida, almeno fino a quando fanno la conoscenza di Tashi Duncan (Zendaya), una talentosa promessa del tennis. 

Tashi inizia una relazione a distanza con Patrick mentre frequenta l’Università di Stanford, dove incontra Art, anche lui uno studente. Un incidente sul campo, però, pone fine alla brillante carriera della ragazza, proprio nel giorno in cui ha una furiosa lite con Patrick. Anche l’amicizia tra Art e Patrick vacilla quando il primo decide di schierarsi dalla parte di Tashi, verso la quale ha sempre nutrito forti sentimenti. 

Tashi, ormai senza possibilità di riprendere la carriera agonistica, si lancia in quella di allenatrice di Art. I due iniziano anche una relazione amorosa, si sposano e hanno una figlia.

Nel 2019, grazie all’aiuto di Tashi, Art è diventato un professionista nel tennis, ma dopo un infortunio sta collezionando solo sconfitte. Tashi, per fargli riacquistare fiducia in se stesso, decide di iscriverlo a un Challenger a New Rochelle, un torneo di seconda categoria. Ma il destino gioca brutti scherzi, e Art si trova a sfidare proprio il suo vecchio amico Patrick. Quest’ultimo, pur avendo un talento eccezionale, non ha mai sfondato nel tennis.

Una sfida in campo, si trasforma in una sfida nei sentimenti, tra segreti svelati e un triangolo non ancora risolto. Prima della partita finale, Patrick e Tashi hanno un riavvicinamento, e proprio sul campo Patrick deciderà di svelarlo ad Art con un gesto già usato nel lontano 2006. 

Una drammaturgia fatta di salti temporali

Spesso la parte interessante non è la storia in sé, ma come viene raccontata. Challengers usa un ordine narrativo fatto di flashback e flashforward, che va a creare un intreccio articolato in grado di tenere lo spettatore incollato allo schermo.

Lo sceneggiatore sceglie di partire dalla fine, l’incipit del film è infatti il torneo finale tra Art e Patrick, per tornare poi indietro alle origini della storia tra i tre protagonisti. Siamo di fronte a più linee temporali che si intrecciano e ci conducono nell’intimità dei personaggi, nei loro caratteri, fatti di forza e debolezze. 

Il tennis è una relazione

“Giocare a tennis è come avere una relazione”, spiegherà Tashi ai due ragazzi durante la sera del loro incontro. Una connessione intima che si instaura tra due giocatori, portandoli in un’altra dimensione. È difficile da spiegare a parole se non la si prova, Art e Patrick non la comprendono.

Una metafora del cinema

Lo spettatore potrebbe essere tratto in inganno, aspettandosi un film completamente diverso da quello che si troverà di fronte. Challengers, infatti, non è un film sul tennis né tanto meno su un triangolo amoroso. 

Challengers parla di cinema. Può essere considerato una metafora metacinematografica. La relazione che si crea tra due giocatori sul campo, di cui parla Tashi, è quella che si crea tra il film e lo spettatore. Un atto di fiducia totale, capace di trasportare lo spettatore in un’altra realtà. 

Un finale controverso (attenzione spoiler)

Patrick ha svelato ad Art il suo segreto, tutte le carte sono a tavola. Non resta che giocare la partita, non c’è più niente da perdere. Nell’ultimo set per la vittoria, Art e Patrick si lasciano andare al vero tennis. Guadagnino ci regala il punto di vista della pallina colpita dai due giocatori, che sfreccia da una parte del campo all’atra in modo feroce.

Sul finale, Patrick tira un pallonetto che Art cerca di rimandargli indietro, ma inciampa sulla rete. Inaspettatamente Patrick gli va incontro impedendogli di cadere. Il film si chiude con un urlo di Tashi, che ha finalmente assistito al vero tennis. 

Sì, ma allora chi vince? 

Il film ci lascia con il dubbio. Se Art è riuscito a restituire il pallonetto, Patrick, decidendo di sorreggere Art, non ha potuto prendere la pallina. Ma è anche vero che Art ha toccato la rete, quindi il punto andrebbe a Patrick. 

Non è questo però l’obiettivo del film. Sapere chi vince non è importante, quando i due giocatori hanno provato la vera connessione del gioco, ritrovando così la possibilità di tornare conoscersi. Anche l’urlo di Tashi rimane avvolto nel mistero: era un urlo di gioia o frustrazione?

Il collante

Se prima parlavamo di relazione tra film e spettatore, il regista è il collante. Quando si crea una connessione, non può che esultare. Come sembra fare Tashi nel finale della pellicola con il suo urlo. D’altronde Tashi, per tutto il film, non ha fatto che tessere le fila della carriera del marito. Il tennis era tutti per lei, e dopo l’infortunio il suo tutto è diventata la sua carriera d’allenatrice. 

Ed è per questo che Challengers non è una storia d’amore tra i tre personaggi: è una storia di passioni, emozioni e desideri umani. 

La musica e il montaggio

Challengers trova la sua forza nel montaggio dinamico e veloce, a cura di Marco Costa, e nelle musiche techno ed elettroniche composte Trent Reznor e Atticus Ross. Un insieme che dona coerenza e forza alle interpretazioni dei tre attori, piena di tensione erotica, rabbia e ferocia. 

Un film sensoriale 

Challengers è un film che passa dallo sguardo per raggiungere i sensi, con i corpi scolpiti di Josh O’Connor, Mike Faist e Zendaya. Corpi forti ma che possono ferirsi. Corpi in movimento e in azione. Lo spettatore in sala quasi riesce a percepire l’odore del sudore e la sensazione della pallina e della racchetta tra le mani. Un film magnetico e arrogante, che regala un’esperienza totalizzante, come solo il vero cinema sa fare.

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