I possibili danni del like incontrollato
Chiunque abbia dimestichezza con un social media non può fare a meno di pensare ai tanti simboli che facilitano la comunicazione testuale digitale, uno di questi è il like.
Emoticon che azzerando il contenuto linguistico per amplificare la comunicazione emozionale per mezzo di quei simboli studiati per rendere efficacemente visibili le emozioni derivate dai contenuti visualizzati sul proprio device. Questa comunicazione in simboli è varia e molto ampia, la simbologia delle emoji – per la quala la Warner Bros – Sony Pictures hanno dedicato un cartoon – è talmente usata nel quotidiano digitale che sembra quasi che esistesse da sempre. Ma qual è stato uno tra i primi simboli introdotti nel linguaggio social? Quasi ridicolo ricordarlo, ma è proprio il like noto anche come mi piace rappresentato dal pollice verso l’alto.
Questo simbolo che esprime il consenso era conosciutissimo dai giovani degli anni 70/80 grazie alla serie televisiva Happy Days nella quale il protagonista Arthur Fonzarelli – detto Fonzie- era solito usare questo simbolo per far comprendere ai suoi followers del tempo che le azioni compiute avevano la sua approvazione.
Il passaggio dal quotidiano al digitale avviene grazie alla piattaforma Facebook con la quale diventa molto famoso per poi diventare il simbolo principe di tutte le App anche attraverso delle rivisitazioni grafiche che lo trasformano in cuore
Questa grande intuizione digitale ha prodotto un fenomeno a cascata che ha portato ad associare a tutti i post la seguente equazione: “più like = più visualizzazione” e di conseguenza più notorietà per il proprietario del contenuto postato in rete. Ma in che termini questo simbolo apparentemente innocuo assume una grande rilevanza all’interno del fenomeno del cyberbullismo?
Il ragionamento è semplice e complesso al tempo stesso. I gruppi di pari tendono a visualizzare quel contenuto che risulta aver ottenuto più visualizzazioni e più like in quanto l’idea che abbia avuto il consenso di molti pari del gruppo stesso, porta quel contenuto ad assumere un valore maggiore rispetto ad un altro che non è stato degnato di uno sguardo. La continua visualizzazione del medesimo contenuto lo porta ad una continua proposta di visualizzazione da parte del social che lo contiene a tutti gli individui che possono essere raggruppati dall’intelligenza artificiale (per esempio) per fascia di età. A questo punto, se il gruppo di pari, ritiene che il contenuto sia divertente cliccherà il pulsante like apportando ulteriore valore a quel post che verrà successivamente condiviso per renderlo visibile agli amici degli amici in rete.
Nulla di male se la rappresentazione condivisa ha sfondi e intenti leciti
ma nel caso di un’azione di cyberbullismo, la continua condivisone e il continuo apporre like porta la messa in ridicolo della vittima ad una visualizzazione virale oltremodo difficile da eliminare dal web. Il contenuto virale denigratorio è uno dei tanti problemi che affliggono il fenomeno del cyberbullismo in quanto consapevolmente o inconsapevolmente il gruppo si rende partecipe alla maggiore e continua diffusione dell’azione illecita del bullo.
L’inganno del pulsante like usato in modo malevolo è sempre dietro l’angolo: a volte l’autore della condivisione cyberbulla attiva dei meccanismi linguistici o crea immagini o video molto divertenti ed accattivanti con cui il visualizzatore si trova letteralmente ingannato ed indotto a cliccare like e condividere senza aver realmente compreso che la comunicazione presente in quel post riguarda la messa in ridicolo, l’offesa e la denigrazione di una vittima prescelta.
L’esempio classico è quello della condivisione di una aggressione verbale o fisica ai danni di una vittima
A volte il contenuto viene postato in rete con dei commenti che invitano a visualizzare il video ad a condividerlo per dimostrare il proprio dissenso alla violenza. Attraverso questo escamotage linguistico il senso di disapprovazione del gruppo social prevale e si tramuta in condivisione e “like” in quanto il singolo che vede quel post, non riflette sull’immagine visualizzata ma resterà focalizzato sul messaggio scritto di presentazione di quelle immagini. In questo caso milioni di persone procederanno dunque a condividere e inserire il like su un contenuto che, a sua volta, diventando virale, continuerà a tormentare la vittima dell’aggressione fisica – condivisa in rete attraverso quel video- costringendola a rivedere ripetutamente quell’episodio e rivivere costantemente quell’umiliazione subìta.
Ecco dunque che il simbolo del like nato per esprimere rapidamente un’emozione positiva diventa strumento per divulgare le azioni di cyberbullismo attraverso un sistema di ingegneria sociale del gruppo che va a fare leva sulle emozioni ed il consenso del gruppo di pari che utilizza lo stesso social media o la stessa App.
Foto di Pete Linforth da Pixabay
Ascolta
Pingback: Il kill selfie: milioni di like anche a costo della vita - SenzaBarcode