Cronaca

Malattia di Huntington: nuovi approcci

Malattia di Huntington: i nuovi approcci terapeutici al Convegno di Palm Springs. Biomarcatori per il monitoraggio della terapia.

Modelli terapeutici innovativi. E anche il ruolo dei pazienti all’interno del processo di ricerca. La malattia di Huntington si affronta in maniera sistematica.

Palm Springs, 8 aprile 2019 – Biomarcatori per il monitoraggio della terapia, modelli terapeutici innovativi e il ruolo dei pazienti all’interno del processo di ricerca: sono tre i messaggi chiave emersi al termine della 14° Conferenza Annuale organizzata dalla CHDI Foundation sulla malattia di Huntington.

La malattia di Huntington
è una raramalattia neurodegenerativa più diffusa di quanto si immagini. Infatti, in Europa e negli USA, la frequenza è stimata in 10-14 casi per 100.000 abitanti. Nel nostro Paese, la frequenza, anche se sottostimata, si aggira intorno agli 11 casi per 100.000 persone. Quindi, calcoliamo di avere circa 6.000-6.500 persone malate solo in Italia, ma trattandosi di una malattia genetica dominante, le persone a rischio di ereditare la mutazione salgono a 30.000-40.000.

Biomarcatori di progressione

“Il primo punto sul quale vale la pena riflettere è che esiste la necessità di ricercare in maniera affidabile nuovi e significativi biomarcatori, preziosi soprattutto per il monitoraggio di terapie sperimentali” – afferma il prof. Ferdinando Squitieri, Responsabile dell’Unità Ricerca e Cura Huntington e Malattie Rare dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza/CSS-Mendel e Direttore Scientifico della Fondazione Lega Italiana Ricerca Huntington e malattie correlate (LIRH) Onlus, Roma, che era presente al Convegno – “In particolare, è stata sottolineata l’importanza di identificare biomarcatori di derivazione strutturale e funzionale, che si ottengono direttamente da analisi del sistema nervoso e dell’encefalo anche attraverso tecnologie innovative di risonanza magnetica avanzata”.

Da un punto di vista patologico, la malattia di Huntington si contraddistingue per la perdita dei piccoli neuroni spinosi nel caudato e nel putamen, le strutture che formano lo striato, la parte più profonda del cervello. Ciò determina la peculiare coincidenza di sintomi motori, cognitivi, funzionali e comportamentali. Tuttavia è stato osservato anche un danno a livello della corteccia fronto-temporale e della sostanza bianca, per cui i ricercatori stanno indagando attentamente l’alterazione delle connessioni cerebrali deputate ai processi di comunicazione tra le varie parti del cervello. “Ciò che sta emergendo è che, specie in fase pre-sintomatica, bisogna cercare biomarcatori delle alterazioni della sostanza bianca, la sostanza isolante posta intorno ai prolungamenti nevosi che permettono all’impulso di essere trasmesso da una parte all’altra dell’encefalo”.

Nuove opzioni terapeutiche

“Il secondo messaggio lanciato durante il Convegno ruota intorno all’enorme sforzo che ricercatori e industria farmaceutica stanno compiendo per abbassare i livelli di huntingtina tossica” – continua Squitieri – “E questi sforzi sono legati in parte a farmaci antisenso, come quelli proposti da Roche e Wave Life Sciences, e in parte ad altre nuove tecnologie”. Roche e Wave Life Sciences, infatti, stanno studiando l’efficacia di farmaci antisenso somministrabili attraverso una infiltrazione intratecale direttamente nel liquor allo scopo di ridurre i livelli di huntingtina. Il farmaco di Roche lo fa in maniera non selettiva, cioè abbassando i livelli sia di huntingtina tossica che di quella normale, ereditata dal genitore sano.

Quello di Wave Life Sciences concentrandosi prevalentemente su quella tossica

“Oltre a ciò sono emerse altre tre strategie che non sono ancora in fase avanzata di sperimentazione clinica ma che risultano promettenti” – afferma Squitieri – “Una di queste è condotta da UniQure ed è una terapia genica in senso stretto perché sfrutta un vettore virale per veicolare un gene che codifica per un frammento di micro RNA (miRNA), il quale rappresenta una sonda complementare all’RNA dell’huntingtina a cui si lega in maniera specifica e selettiva, riducendone così i livelli.

“Una seconda terapia in sperimentazione, proposta da Voyager Therapeutics ha come obiettivo quello di impedire che il gene mutato produca la huntingtina agendo su questo con tecniche di editing ma di nuova generazione, evitando un taglio e, quindi, un maggior carico di effetti collaterali” – conclude l’esperto – “Infine, c’è l’approccio proposto da PTC Therapeutics che sta studiando la possibilità di non infondere farmaci nel liquor, ma di fornire ai pazienti una terapia per via orale o per infusione nel circolo ematico. Gli studi prelimiari sul modello murino hanno messo in luce la possibilità di ridurre i livelli di huntingtina nell’encefalo fino all’80% con questa strategia.

È una strategia pre-clinica interessante e non invasiva e dall’azienda hanno fatto sapere che sperano di arrivare a uno studio clinico di Fase I sull’uomo già a partire dal 2020”.

Il ruolo dei pazienti

L’ultimo, ma non meno importante, aspetto legato alla malattia sottolineato al Convegno di Palm Springs è legato al ruolo dei pazienti e alla profonda necessità di coinvolgerli in maniera attiva, favorendo la raccolta di informazioni che derivino proprio dai malati prima ancora che dai modelli di malattia. “Mi hanno molto colpito le parole di un relatore che affermava come in questo momento il bisogno della partecipazione dei pazienti agli studi clinici da parte dei ricercatori stia letteralmente esplodendo” – afferma Barbara D’Alessio, della Fondazione LIRH (Lega Italiana Ricerca Huntington e Malattie Correlate) unica organizzazione italiana rappresentativa dei pazienti presente al Convegno.

Molto più che in passato i ricercatori hanno un enorme bisogno del contributo dei pazienti perché la collaborazione del malato, più ancora che del campione di sangue o tessuto che esso può offrire, è imprescindibile dalla fase di ricerca e comprensione della malattia. Dunque, cosa possono fare i pazienti per diventare parte attiva della ricerca?

“La cosa più semplice è partecipare allo studio ENROLL-HD, il più grande studio di ricerca osservazionale al mondo e che vede la Fondazione LIRH in un ruolo protagonista per numeri e qualità dei dati raccolti” – chiarisce D’Alessio – “Chi partecipa mette a disposizione dei ricercatori dati e informazioni sulla propria patologia e sulla propria salute, oltre che campioni biologici di vario tipo.

È davvero importante donare il proprio tempo

e partecipare ai programmi di ricerca anche di semplice osservazione clinica e bioogica, non solo quelli interventistici, perché questi rappresentano proprio la base per focalizzare meglio l’approccio terapeutico nelle sperimentazioni terapeutiche future”. Per partecipare ad ENROLL-HD basta chiamare al numero verde LIRH 800.388.330 oppure inviare una mail ad info@lirh.it.

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