Venti di guerra coreani, da Kim a Trump
Kim Jong-un il giovane dittatore erede della dinastia nordcoreana alle prese con l’ultima sfida, forse definitiva, credere o non credere a Trump?
Kim Jong-un da quando è salito al potere dopo la morte del padre ha deciso di spingere sul ricatto internazionale: provocazioni atomiche in cambio di salvezza economica. Il regime nordcoreano si regge sulla ferrea disciplina dettata dal terrore. I fuoriusciti ci raccontano di un paese dove basta poco per essere eliminati. Tra leggende sui metodi più brutali per uccidere il dissenso e l’agiografia di politici occidentali poco accorti, la verità del regime asiatico si trova nel disastro economico di una dittatura stretta tra sanzioni e folle spesa per l’armamento.
Kim deve mantenere saldo il potere ereditato dalla sua famiglia, ha necessità di sfoggiare il pugno di ferro all’interno dei confini, ma non basta. Quando la fame dilaga l’unica arma di distrazione rimane la retorica dell’accerchiamento, della guerra, dell’orgoglio militare. All’esterno il ricatto non può essere certo costituito dalla diffusione di un’ideologia tanto anacronistica quando brutale, rimane quindi la minaccia atomica. Insomma, per il giovane Kim l’atomica è un investimento per garantire la propria sopravvivenza.
Oggi, però, alla Casa Bianca risiede un nuovo presidente assetato di risultati per sedare tanta diffidenza e molta insofferenza.
Contestato in modo massiccio fin dalla sua elezione, e messa in discussione la sua retorica patriottica – vedi indagini FBI su aiuti elettorali russi – ha bisogno di assestare qualche buon colpo. Entrambi si trovano ad un bivio, ma il primo si gioca molto più del secondo. Tutti sappiamo che l’impero Kim è destinato a finire, soprattutto dopo che la potenza cinese ha manifestato insofferenza verso le azioni maniacali del giovane rampollo. Le sanzioni economiche stanno avendo effetto e la tenuta del regime-terrore nel Paese non è così scontata. Le provocazioni militari quindi saranno sempre più frequenti quanto più si faranno sentire gli effetti delle sanzioni. Quando i regimi avvertono difficoltà di tenuta spesso ricorrono al nemico esterno, e con risultati disastrosi, basta ricordare la fine del regime argentino alle Malvine.
Non basteranno quindi a Kim le adunate oceaniche sincronizzate al capello con generali dall’uniforme piena di medaglie sempre plaudenti e sorridenti.
Quella di Kim è una scommessa sicuramente perdente se si andrà a vedere le carte, ma può far danni, ed il regime basa la sua forza sulla paura. Trump ha in mano le carte per vincere la partita solo quando sarà sicuro che nessuno muoverà un dito per difendere il regime di Kim. Ovviamente scontate le parole di sdegno internazionale che, vista la poca stima di cui gode il miliardario, ben pochi danni gli possono fare. Il problema è un altro: per quanto tempo ancora si potrà lasciare che un regime come quello nordcoreano si doti di ordigni nucleari e vettori per spedirli in mezzo mondo? Qui non si sta parlando più di ipotesi future.
I test nucleari Pyongyang li ha già fatti ed i missili sono stati già lanciati. Il riflesso militare americano potrebbe essere elementare: o si fermano subito oppure sarà troppo tardi. A rischio non c’è solo la Corea del Sud, ma il Giappone e forse anche più lontano. Inoltre c’è anche un apparato militare industriale da appagare. Per quanto tempo ancora le armi devono restare nei magazzini quando possono essere usate con efficacia? La dimostrazione in Afghanistan è costata al contribuente americano milioni di dollari, per non parlare del lancio in Siria. Soldi che finiranno per rimettere in moto una macchina bellica ferma da tempo con relativa occupazione.
La scommessa è aperta, e forse è vero che difficilmente ci saranno vincitori: dopotutto domani è un’altra guerra.