La città di ferro, riflessione, denuncia, un mantra di dolore
La città di ferro al Teatro Arvalia, lo spettacolo ispirato a “The Ballad of Reading Gaol” di Oscar Wilde presentato da Eleusis Teatro con la regia di Emanuele Faina. Dal 28 gennaio al 14 febbraio
Sul palcoscenico del Teatro Arvalia approda dal 28 gennaio al 14 febbraio La città di ferro, presentato da Eleusis Teatro con la regia di Emanuele Faina. Ispirato a “The Ballad of Reading Gaol”, straordinario componimento poetico di del 1898, La città di ferro è una riflessione, una denuncia, un mantra di dolore.
Nel 1895 Oscar Wilde venne condannato a due anni di lavori forzati per omosessualità e imprigionato nel Carcere di Reading, una cittadina del Berkshire, una settantina di chilometri a ovest di Londra. Qui Wilde visse quella che fu la peggiore esperienza della sua vita e, dopo la liberazione avvenuta il 19 maggio 1897, scrisse uno splendido componimento poetico intitolandolo “La ballata del carcere di Reading”, pubblicato nel 1898. Non si tratta del resoconto della prigionia, né di un’invettiva contro i suoi carcerieri. È, piuttosto, una riflessione. Una denuncia. Un altissimo grido di dolore. Il testo prende le mosse da un avvenimento terribile che l’autore si trova a vivere durante la carcerazione: Charles Thomas Wooldridge, ufficiale della Guardia di Sua Maestà, viene giustiziato per aver ucciso sua moglie in un folle atto di gelosia. Wilde ha occasione di conoscerlo prima dell’impiccagione, di parlarci, forse di diventarne amico. È questo lo spunto iniziale per alzare un altissimo grido di condanna contro la pena di morte in primis, ma anche contro la condizione dei prigionieri, alienati dalla loro vita in gabbia e dalla ripetizione ossessiva dei ritmi della galera. Non c’è possibilità di redenzione in questo carcere, non si esce migliori. Più cattivi, se mai. L’unica azione importante, l’unica cosa su cui concentrarsi è la sopravvivenza: arrivare al giorno dopo.
“Lo spettacolo riprende, trasferendolo sul palcoscenico, -afferma Emanuele Faina – il filo del discorso poetico di Wilde. Ventidue attori, nella messa in scena, incarnano uno spaccato di vita carceraria atemporale: passato, presente e futuro s’incontrano intrecciandosi tra loro in una fitta rete d’immagini e parole, emozioni e sentimenti discordanti. Una scenografia claustrofobica accompagna un’atmosfera oscura nella quale si muovono i personaggi, memorie di pensieri, dolori, disperazioni. Tagli di luce e brusii pennellano l’affresco di un ricordo rude e spietato. Il carcere, ora, può essere metafora dell’intera esistenza: la galera non è più soltanto la cella… Può esserlo il corpo, la mente; possono esserlo le sovrastrutture, i pregiudizi, le abitudini… La vita, in una parola. Allora le sbarre ingabbiano, indifferentemente, da tutt’e due le parti. È vano pensare di essere fuori: basta guardare dall’altro lato e si è inesorabilmente dietro i cancelli. Rinchiusi in una gabbia magari senza confini evidenti, ma non per questo meno asfissiante. Questi gli spunti di riflessione che propone lo spettacolo,disseminati tra le innumerevoli “ripetizioni” imposte dal carcere, che sia dentro o fuori le mura. Solo attraverso la presa di coscienza, si può provare a forzare i chiavistelli: scegliere di vivere in punta di piedi, con una torcia in mano, per scrutare il buio, al di là delle sbarre”.