Esordio di Paolo Leardi: Quello che siamo
Paolo Leardi al suo esordio su SenzaBarcode! Presenta il suo racconto breve: Quello che siamo.
Potete fare come Paolo Leardi ed inviare a ufficiostampa@www.senzabarcode.it il vostro racconto, i migliori saranno pubblicati ogni domenica.
Quando me ne accorgo è troppo tardi, il piccolo ciclone d’acqua ha già trasportato via il braccialetto portafortuna che avevo al polso destro. Ormai era lacero, non che si potesse riparare, ma mi avrebbe fatto piacere conservarlo. Sono passati due lunghi anni da quando diedi pochi spiccioli a un ambulante e lui, per riconoscenza, mi regalò uno spago di stoffa con tutti i colori su uno sfondo verde. Grazie a quello, disse, non avrei perso le speranze, ma erano loro che da un pezzo avevano perso di vista me. Mi ero abituato a vedere quel sottile filo di smeraldo al braccio, in un certo senso è vissuto con me più tempo rispetto a molte altre persone, e quando l’ho visto fuggire via in doccia, ho capito che il nostro destino è di perdere prima o poi tutto quello che abbiamo ad un palmo di naso. L’unica cosa che ci rimane veramente fino alla fine siamo noi stessi e nient’altro.
Di ritorno da una settimana in Grecia, accompagnato da rivoli di sudore sulle tempie, mi avvio lentamente a pagare le tasse della tessera di giornalista. La rinnovo ormai da due anni e lavoro al quotidiano da quattro, quando, dopo tre mandati di consigliere comunale, ho scaricato il partito per scempi burocratici che avevano portato a schifezze più luride di una fogna. Un caro amico mi presentò così al direttore, che in prima battuta piantò grane dicendo che non si poteva fare niente perché non ero iscritto all’albo. Si convinse solo dopo aver letto un paio di pezzi, ribadendo che comunque bisognava aprire la pratica. I primi tempi lavorare in redazione era abbastanza soddisfacente, mi mandavano per strada con colleghi più esperti in cerca di buone nuove e lo stipendio era da fame. È vero che da quando sono stato messo in regola lavoro di meno e mi pagano di più, ma purtroppo ho più tempo per pensare a me stesso. Il guaio è che ho sempre evitato le critiche non perché fossi permaloso, ma semplicemente perché odio perfino essere guardato di sfuggita, figuriamoci dentro.
Su all’ordine la situazione è moscia, il sorvegliante ha la camicia mezza sbottonata e le labbra incollate su una bottiglietta d’acqua. Mi saluta da lontano, io alzo l’indice per dirgli che devo salire al primo piano e lui annuisce. Entro in ufficio e poggio tessera e soldi davanti ad un impiegato.
«Buongiorno carissimo,» e una manata travolgente mi attecchisce la spalla. È il presidente, un tipo alto con la faccia verdastra e il naso storto, simpatico quanto un cazzo in culo e viscido come una serpe.
«Salve presidente, come si va?»
Si accorge che il mio sorriso è più falso del buonismo di un prete.
«Si va, ringraziando Dio. Come ha passato le ferie, giovanotto?»
«Non c’è male, il guaio è che sono finite. Le sue?»
«Ferie, e chi se le ricorda più, sono anni che non vado al mare. Piuttosto, la prossima primavera ci sono le elezioni,» dice lui in tono allusivo. «Abbiamo bisogno di gente come lei.»
«Sono io che non ho bisogno della politica. Troppi anni sono servito a fare la spilla d’oro su un ammasso di ferraglia arrugginita, ne ho fin sopra le palle.»
«Come vuole lei,» mi fa lui tendendomi la mano.
«Arrivederci,» rispondo io evitando di stringergliela. Metto la ricevuta in tasca, sistemo il resto nel portafoglio e mi avvio verso l’uscita.
Guardo l’orologio, già ora di pranzo. La mattinata è persa, così decido di trattenermi per strada e di mangiare un boccone. Passato il bar all’angolo di fronte la facoltà di lettere, vedo di sfuggita una vecchia insegna, “kebab for breakfast”. In un primo momento stento a crederci, ma osservando meglio quel neon biancastro e consumato, gli anni dell’università mi scorrono davanti agli occhi in un’inarrestabile sequenza d’immagini, come quando si pensa un film visto anni e anni prima, ma ancora vivido nella mente. Ricordo quando dopo i corsi cenavamo là in venti, quando festeggiavamo dopo un esame mangiandoci tre panini ciascuno e la sera ci sentivamo il piombo sullo stomaco, quando vi portavamo a mangiare le prime ragazze, quelle più entusiasmanti e più vere, quando ancora credevamo di poter sbeffeggiare la solitudine.
Entro e vedo che anche dentro non è mutato niente. Gli stessi tavolacci di legno, le stesse panche, le pareti dipinte di un improbabile blu cobalto e un ampio specchio di vecchia manifattura dove lasciavamo sempre le ditate quando facevamo i cretini. Avviandomi alla cassa mi accorgo, però, che è cambiato il personale. Non ci sono più Mohammed e suo figlio Malik, ma un ragazzo magro e coi capelli rasati, a cui ordino un panino e un’aranciata. Mentre aspetto, cominciamo a chiacchierare. Mi dice di avere ventitré anni e di chiamarsi Mario. Gli chiedo che ne è stato dei vecchi proprietari, e lui, con mia sorpresa, dice di essere il figlio di Malik, che Mohammed, suo nonno, è tornato in Pakistan da cinque anni, e che suo padre è morto d’infarto il mese scorso. Che carogna, il tempo: consapevole della sua eternità, marcia sulle nostre teste senza scomporsi e non si accorge che, attimo dopo attimo, cambia noi, la nostra vita, i nostri ricordi.
Il mio panino è pronto, come anche allora facevo mi avvio verso il tavolo in fondo, quello vicino allo specchio. Una musica etnica di sottofondo accompagna il sapore speziato, gli occhi mi cadono sul televisore che trasmette un telegiornale straniero. Improvvisamente fa il suo ingresso nel locale un signore sulla cinquantina, alto sul metro e ottanta e grasso come un maiale, con la faccia coperta da una folta barba e un grosso paio d’occhiali. L’energumeno si avvia al frigorifero in modo tracotante, afferra una lattina e la finisce dopo pochi sorsi, si avvicina alla vetrina e chiede una cotoletta di tofu.
«Sono a dieta,» dice a Mario in tono d’intesa.
Addento avidamente il panino per non sbottare in una risata. Quando gli consegna il piatto, il tizio viene a sedersi di fronte a me. Mentre si sforza di tagliare il tofu con le posate di plastica, entra un cane bastardo dal pelo ingrigito e una protuberanza che straborda dal collare.
«Via, Mario! Caccialo via!» sbotta a urlare il grassone.
Il ragazzo si avvicina pazientemente al tavolo, accompagna il cane all’uscita come si usa in certe serate con gli ospiti d’onore e gli lancia un pezzo di pane.
«Mario, di chi è quel cane?» domando io incuriosito.
«Dell’antiquario affianco,» risponde il ciccione.
La sua voce rimbomba nel locale come un proiettile. Mario alza gli occhi al cielo e sghignazza sotto i baffi.
«Ma perché quel bozzo sul collo, è malato?»
«Un cancro,» fa lui con voce abbattuta. «Ormai è vecchio, ha più di dieci anni, se si opera bisogna asportargli anche la zampa.»
«Purtroppo il tempo passa,» gli dico con tono melanconico. «Passa per tutti.»
«E se ne fotte,» mi fa eco il barbuto ammasso di lardo.
Alzo la mano in cenno di saluto ed esco dal locale. Nella tristezza dei suoi occhi, nell’istante prima di uscire, ho potuto scovare un pozzo d’umanità senza fondo. Il tempo può cambiarci esternamente, può mutare le nostre abitudini e i nostri stati d’animo, ma non potrà mai mettere le mani su quello che siamo.
di Paolo Leardi: Quello che siamo