Luca Olzer, tra jazz e classica, tra Italia e Olanda
SenzaBarcode oggi intervista Luca Olzer. Giovane artista che cerca di smussare gli angoli sia nell’ arte che nella vita tanto da abitare in una casa tonda (o quasi).
Luca partiamo da una curiosità. E’ vero che la tua casa non ha spigoli? L’hai disegnata tu? Rappresenta plasticamente ciò che cerchi o hai trovato nella tua musica?
Devo ammettere che questa domanda mi spiazza. Di certo le case che abitiamo rappresentano un po’ quello che siamo, ma come la mia personalità anche casa mia qualche spigolo ce l’ha. Ho la fortuna di abitare una vecchia abitazione in Valle dei Mocheni, in montagna, dove effettivamente le geometrie sono molto smussate per via dell’usura e delle tradizionali tecniche di costruzione. Sì, si tratta di una dimensione che ricerco sia nella vita che nella musica: la tendenza a preferire la complessità della natura e del tempo alle strutture sociali attuali.
Nella tua formazione, Luca, ha un ruolo importante la musica classica: il jazz, che è uno dei registri musicali più inclusivi, cosa prende dal mondo della musica colta?
Fin da bambino ho sempre ascoltato moltissima musica classica, grazie principalmente a mio padre, trombettista classico, e anche grazie al fatto di essere nato in Italia. Per un pianista europeo la musica classica rappresenta delle radici culturali importanti, per cui a mio parere prima o poi risulta inevitabile un confronto con quel tipo di repertorio, non si può affermare lo stesso per il jazz che invece rappresenta un influenza ben più attuale per noi abitanti del vecchio continente. Oltre che ad avere un ruolo fondamentale nella formazione tecnica di un pianista, la musica classica rappresenta per l’improvvisatore europeo un importante pilastro estetico identitario per quanto riguarda l’aspetto armonico, melodico e strutturale. Non so ancora per quanto tempo si potrà affermare con sicurezza questo concetto vista la veloce accelerazione della globalizzazione. Per quel che mi riguarda trovo estremamente produttivo lavorare sul rapporto che intercorre tra composizione ed improvvisazione nell’ottica di esplorare gli effetti prodotti dall’approccio classico europeo e da quello jazzistico americano, ma anche da altri repertori ad esempio di origine orientale.
La copertina della tua pagina Facebook è Contatto, un nuovo CD. Come si è evoluta la tua produzione musicale dal 2008 anno dell’uscita del tuo lavoro Zetacord”?
Il mio primo disco, Zetacord, è stata un’esperienza molto formante per la mia musica ed è stato un grande stimolo per direzionare la mia attività di compositore. Il mio ultimo disco è nato dall’esigenza di esprimere nuovamente la mia identità musicale ma tra questi due lavori che recano la mia firma ci sono stati importanti progetti che mi hanno maturato; l’esperienza ad esempio con la Villa Lagarina Big Band, con il quale abbiamo registrato un disco sulla musica di Don Ellis e sperimentato a fondo approcci sull’improvvisazione libera. Un’altro progetto nel quale partecipo come pianista e tastierista elettrico è il Mirko Pedrotti Quintet, autore del disco Kimera e vincitore di importanti concorsi in Italia. Parallelamente a questi progetti dal sapore jazzistico trovo molto stimolante la collaborazione con artisti di diversa estrazione come Andrea Bisognin con il quale ci cimentiamo nella produzione di musica elettronica e gli Hot Mustache, un gruppo emergente che propone proprie composizioni ispirate al repertorio funk americano degli anni ’70.
Il vostro Trio propone musiche psichedeliche e romantico-francese. Come è nato il vostro repertorio?
Il nostro progetto nasce dalla volontà di elaborare alcune mie composizioni originali attraverso le quali tentiamo di esplorare, appunto, scenari psichedelici ispirati da musiche etniche, colonne sonore e pianismo romantico francese, sapori e suoni che sono entrati nella mia vita durante i miei viaggi, principalmente in India ma anche in Nepal, Tailandia e Olanda. Mi accompagnano in quest’avventura Stefano Anderle al basso, compagno di lunga data e Matteo Dallapè, giovanissimo e talentuoso batterista conosciuto tra i banchi del conservatorio di Trento. La nostra sfida si snoda attraverso l’equilibrio tra silenzio e musica ed il continuo mescolio di quelli che potrebbero essere definiti come generi musicali diversi all’interno dei quali sperimentiamo varie forme di improvvisazione e composizione in un continuo susseguirsi di metamorfosi musicale. Si tratta, insomma, di una ricerca di relazione con l’ascoltatore che tenta in tutti i modi, al di là di ogni concetto estetico, di entrare in contatto, invariabilmente, con tatto.
Luca per alcuni anni hai studiato e suonato in Olanda: ti chiedo due aggettivi che descrivono il suonare nel Paese dei tulipani e in Italia.
Due aggettivi per confrontare questi due paesi dal punto di vista di un musicista potrebbero essere liquido per l’Olanda e solido per l’Italia. Lo scenario musicale in nord Europa è estremamente interessante, basti ascoltare i famosi trii pianistici svedesi come Esbjörn Svensson o Bobo Stenson, la loro musica sembra fluire in modo dolce sia dal punto di vista ritmico che timbrico, sempre pronta a nuove contaminazioni. I pianisti olandesi che più mi ispirano sono Harmen Fraanje e Jeroen Van Vliet, due personalità molto avanguardiste e contaminate dalla musica classica in modo maturo e consapevole. Adoro suonare in Olanda perché vi sono in alcune città delle forti concentrazioni di musicisti per cui vi è una effervescenza artistica molto forte, nascono molti progetti diversi e si ascoltano innumerevoli concerti, per cui vi è spazio per la sperimentazione, come ormai da tradizione, considerando lo scenario jazzistico olandese fin dai primi anni ’60. In Italia la situazione è molto diversa, tendono a nascere conservatori e scuole in ogni piccolo centro per cui ogni ambiente tende a trovare una propria identità stabile, spesso legata, per quanto riguarda il jazz, al repertorio americano più classico. Sia nei conservatori che in ambienti dove si ascolta jazz è difficile assistere all’attività di ricerca, per questo motivo trovo sia fondamentale sostenere i festival jazzistici in Italia che sono spesso gli unici luoghi dove i musicisti possono esprimere le proprie nuove idee e confrontarsi sulle diverse strade intraprese. Per quanto riguarda ad esempio l’esperienza di TrentinoInJazz è affascinante notare come ai progetti legati all’esecuzione degli standards americani si affianchino sempre più spesso progetti molto più sperimentali e contaminati da generi tradizionalmente extra-jazzistici. Mi auguro che nei prossimi anni realtà come il Valsugana Jazz Tour, per il quale mi sono esibito lo scorso luglio, riescano a crescere sempre più vigorosamente in quanto rappresentano per l’Italia un pretesto di crescita culturale importante, dove i musicisti riescono ad esprimersi liberi dai canoni commerciali e possono coltivare in modo genuino la propria musica.
Grazie Luca.