Cronaca

Quello che Turing non ha detto (ma avrebbe potuto)

La mia mente sta svanendo. Non c’è alcun dubbio. Lo sento. Lo sento. Ho paura.  Hal 9000. Turing

Nel 1950 usciva su Mind l’articolo “Computing machinery and intelligence”, a firma Alan Turing. La domanda da cui partiva il padre dell’informatica era: Le macchine possono pensare? La frase aveva però troppe implicazioni, sarebbe stato necessario definire esattamente l’uso della parola “macchina” e di “pensare”.

Turing sostituì la domanda con un esperimento (a quei tempi mentale, visto che tecnicamente non era ancora possibile), dove un esaminatore avrebbe dovuto interrogare (via telescrivente) due candidati: uno di questi sarebbe stato una macchina. Se l’esaminatore non fosse riuscito a scoprire quale dei due fosse la macchina ecco che saremmo stati di fronte a una forma di intelligenza.

Da questo articolo é nato quello che viene detto il “Test di Turing”, che dovrebbe stabilire se una macchina, o meglio, aggiornando ai nostri tempi, se un software può pensare. Nei giorni scorsi é uscita la notizia che il programma “Eugene Goostman”, che simulava un ragazzo di tredici anni, avrebbe passato il test, cioé avrebbe ingannato i suoi interlocutori il 33% delle volte (il limite era stato fissato al 30%) in una conversazione di cinque minuti.
L’affidabilità dell’esperimento é stata da più parti contestata, la percentuale del 30% fa riferimento a un passaggio dove Turing ipotizza che da lì a cinquant’anni sarebbe stato possibile identificare il vero umano non più del 70% delle volte in una conversazione di cinque minuti. Il fatto che simulasse un ragazzo giovane impediva di fare domande complesse. Inoltre i valutatori non erano tutti esperti di intelligenza artificiale.
Per il momento possiamo stare tranquilli, ancora non si prepara l’invasione di macchine senzienti che ci soppianteranno.
Niente ci vieta però di pensare, così come faceva Turing, che in un futuro non troppo lontano, grazie a miglioramenti tecnologici, avremo delle macchine senzienti indistinguibili nei comportamenti dagli esseri umani.
Il 1950 é anche l’anno di uscita di Io, Robot, una raccolta di racconti di Isaac Asimov, lo scrittore di fantascienza del ciclo della Fondazione e dei robot positronici. Asimov aveva immaginato questo tipo di robot come alternativa a quelli di cui si parlava nei racconti di fantascienza fino a quel momento, che erano di due tipi: quelli cattivi che volevano sterminarci (stile Terminator) o quelli patetici, con sentimenti umani esagerati (stile L’uomo bicentenario). Questi robot sottostanno alle tre leggi della robotica, che gli impediscono di fare del male all’uomo e gli impongono di aiutarci. Questo mi sembra il punto fondamentale. Renderci più lieve vivere su questa Terra.

Diciamocelo: L’intelligenza é un peso. Solo il cervello consuma un terzo del fabbisogno calorico giornaliero. Inoltre il pensiero porta con sè dubbi, tentennamenti, é un organo sovradimensionato di cui non sappiamo bene cosa fare. È stato utile nel processo evolutivo da scimmioni a homo sapiens, ma ormai ha funzioni che possono essere demandate ad altri. All’inizio sembrerà innaturale, ma fu così anche per l’avvento della lavatrice; oggi chi tornerebbe a lavare i panni al fiume?

Un robot intelligente può chattare al nostro posto e combinarci incontri erotici, cliccare su Mi Piace su Facebook, addirittura scrivere insensati articoli sui blog, in tutto e per tutti come noi. Può sostituirci in molti compiti che non abbiamo più voglia di svolgere, essere intelligente al nostro posto lasciandoci liberi di dedicarci a quello che vogliamo: alla riproduzione della specie o alla coltivazione dei pomodori. Lasciamo quindi che la nostra mente svanisca. La mia lo sta già facendo, lo sento.

Alberto De Paulis

Informatico cinefilo e viceversa, osserva il mondo dall'interno di Genova e della sua testa. Alla trasgressione preferisce la digressione. Indeciso esiste, a volte desiste.

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