Cronaca

Fasano jazz Festival: intervista a Vincenzo Deluci (2° parte)

Intervista per SenzaBarcode a Vincenzo Deluci, artista esibitosi al Fasano jazz Festival.

Come e quando si avvicina al mondo della musica?

Tutto cominciò all’età di quattro anni, da “Ginuddo”.
“Ginuddo”, così era scritto sull’insegna del negozio di giocattoli del mio paese dove tutti i bambini, nessuno escluso, accompagnati dai propri genitori, venivano rapiti da forme e colori fiabeschi.

Una volta i miei genitori mi ci portarono, avevo quattro anni appena e mi dissero che potevo scegliere solo uno dei giocattoli esposti. Mi guardai attorno e fui catturato, tra i tanti asinelli, Mazinga, spade e maschere di Zorro, da quei colori e quella strana forma. Era lì, appesa al muro con uno spago sottile. Era lì, di colore giallo e verde, fui irresistibilmente attratto dalle sue curve e dai tre tasti che già immaginavo muoversi velocemente sotto la lieve pressione delle mie dita. Era lì, il giocattolo perfetto. Lo avevo trovato e, trionfante, lo dissi a mamma e papà. Rientrammo a casa. Ero ansioso di cominciare a studiare questo strano giocattolo. Riuscii subito a capire che soffiando all’interno del piccolo foro, che benevolmente mi guardava, uscivano dei suoni e compresi anche che spingendo i tre tasti questi suoni erano diversi tra loro.

Questo giocattolo divenne molto importante. Mi piaceva tantissimo esplorare le sonorità che emetteva, non le chiamavo ancora note.
Avevo otto anni quando chiesi a mio padre di parlare con un suo zio che aveva fatto la guerra, la Seconda Guerra Mondiale, da trombettiere. Non era l’unico musicista in famiglia.  Oltre a lui, c’erano il mio bisnonno con i due fratelli e il mio trisavolo con altri due fratelli. Suonava di tutto, ma si può immaginare che anche lui fosse influenzato da quella musica, il jazz, che gli americani suonavano in quegli anni tra un bombardamento e l’altro, mentre liberavano l’Italia dal nazifascismo.
Dopo la bottega, capeggiava la banda del paese e teneva lezioni di musica e strumento per i tanti bambini e ragazzi che desideravano imparare a suonare. Per questo, la sua bottega di tappezziere divenne fucina di bambini e ragazzi che, raggiunta una sufficiente abilità con lo strumento prescelto, passavano a suonare in banda.

Fu così che, come tanti altri bambini con il fuoco della musica nel ventre, a otto anni chiesi a mio padre di poter seguire lezioni di musica e strumento proprio da zio Cosimo. Mio padre ne fu felice e soddisfece subito la mia richiesta. Fu così che cominciai.
Dopo otto mesi, di teoria, solfeggio, spernacchiamenti e indomabile voglia di farcela, la mia passione, letteralmente scalpitava quando dovevo suonare e tutto ciò zio Cosimo lo riferiva ai miei genitori. Così li convinse a acquistare uno strumento tutto per me. Si decise per un flicornino, una tipo di tromba, più corta, perché adatta alle mie piccole mani. Ma, mio padre era disoccupato. Con quali soldi avrebbe potuto comprare lo strumento? Fu zio Cosimo che s’inventò una colletta tra amici, anche quelli non appassionati di musica. Tra questi ultimi l’allora sindaco di Fasano, che passò a mio zio una banconota da diecimila lire, ma volle il resto di cinquemila.
Raccolta la cifra necessaria, i miei prenotarono lo strumento da un negozio di Napoli e a me non rimase altro che aspettare, fremendo che il pacco arrivasse. Nel frattempo, continuavo a seguire le lezioni da mio zio e, quando la banda suonava, la seguivo portando i libretti delle musiche previste per l’esibizione.  Imparai tutte le marce funebri e sinfoniche a memoria.
Il flicornino arrivò e, fatta la necessaria pratica per suonare con gli altri, all’età di nove anni, era il 1983, zio Cosimo mi fece confezionare una divisa da banda su misura, con tanto di berretto con uno scudo dorato sopra dov’era disegnata la lira musicale.
Il mio primo giorno in banda fu in occasione della Commemorazione dei Defunti che si teneva nella villa comunale, di fronte al Monumento ai Caduti. Oltre al repertorio scelto per l’occasione, si eseguiva anche il silenzio militare. Era proprio il primo brano che avevo imparato a memoria e, quella mattina, toccava a me suonarlo. Ho ancora vivido il ricordo di quella sensazione: un misto di timidezza, paura, e felicità. Gli occhi di tutti erano puntati su di me, quell’ora, quelle luci delle sei del mattino, alle quali non ero abituato, erano piuttosto surreali. Zio Cosimo mi fece segno di prepararmi. Toccava a me suonare il silenzio per il milite ignoto. Le gambe tremavano, ma non le dita e le mani.

La tromba, uno strumento musicale dalla strana forma, può sembrare un pezzo di metallo qualsiasi invece è ottone. Il suo suono può essere dolce, ma anche impetuoso e squillante. A differenza di altri strumenti, la chitarra o il pianoforte o uno strumento percussione, il suono della tromba è prodotto dal fiato, dal respiro del musicista, come se fosse un’estensione del corpo che, amplificando il respiro dà voce all’anima. Infatti, secondo molte religioni, soprattutto antiche, il respiro è assimilato all’anima. Quando si “rende l’anima a Dio” lo si fa grazie all’ultimo respiro. Tutto ciò testimonia la profonda vicinanza di questo strumento alla dimensione spirituale. Non a caso nell’iconografia della tradizione, gli angeli suonano uno strumento a fiato.
Non a caso, l’incontro con la tromba mi ha cambiato la vita e me ne sono subito innamorato.
Mi piace parlare della tromba non come di uno strumento musicale, ma come una compagna di vita che segue ogni mio passo, successi, fallimenti, tristezze e gioie.
Da bambino ho posseduto pochissimi giocattoli e da grande molte relazioni sentimentali, ma  solo due trombe. Mi sono innamorato solo due volte.
Proprio perché per me parlare della tromba come di uno strumento e basta era riduttivo, le diedi un nome: Titina. La giusta compagna di vita, insostituibile amore.
Una volta, avevo dodici anni, Titina era appoggiata su una sedia, là dove facevamo le prove per un concerto. Inavvertitamente un ragazzo con il ginocchio urtò la campana di Titina che rovinosamente cadde per terra. Guardando la scena e sentendone il rumore, rimasi impietrito e senza parole. Mi avvicinai a raccoglierla, come se fosse la mia donna svenuta che aiutavo a rialzarsi. La presi tra le mie braccia e in silenzio la portai via, cercando di camminare lentamente e guardando quale danno avesse subito. Mi accorsi che si era appena ammaccata, ma non vedevo l’ora di trovare un posto, appartato e silenzioso, dove potevamo starcene soli io lei. Dove avrei potuto coccolarla e suonarla con delicatezza, con poca forza di fiato, come solo noi due sapevamo che si poteva fare.
Titina mi ha regalato successi e fallimenti. È sempre stata lì a guardarmi e aiutarmi nei momenti bui che come tutti anch’io ho attraversato. Chi mi conosce sa che non mi lamento o demoralizzo mai, sa anche che mi è molto più facile confidarmi e confidare “con e nel” suono della mia tromba, piuttosto che con una persona, benché fidata. Può accadere che un amico o una compagna ti tradisca, Titina no. Ho capito tante cose solo grazie a lei, in una fusione empatica completa, spirituale e di totale fiducia. È come il totem degli Apache, un oracolo dal quale, chiedendo o pregando, ricevo risposte.
A novembre del 2014 festeggeremo il 30° anniversario della nostra unione e potrei raccontare tanto di quel che è successo a me e lei. In futuro, quando sarò pronto, potrei scrivere una biografia di questa strana coppia. Chissà.
Però, una storia realmente accaduta posso raccontarla già adesso.
Il 22 ottobre 2004, una serata per me importante, io, Titina e il mio trio ci esibivamo in concerto in una cittadina vicina a Lecce. Eravamo a suonare presso un’associazione dal nome evocativo “Thelonius Monk”. Fu un concerto bellissimo, il pubblico era competente e attento, le sonorità scelte erano adeguate al clima nel quale eravamo immersi.
Io, Titina e i miei compagni di viaggio, Antonio alla batteria e Vito all’organo Hammond, quella sera eseguimmo le musiche del mio ultimo lavoro discografico di allora, “La rana dalla bocca larga”. Come in tanti altri concerti il divertimento e il piacere di suonare insieme ci accompagnava. Però, quella serata aveva un sapore diverso dalle altre lo avvertii dal primo momento, e non volevo smettere di suonare.

Al rientro, le due della notte, la manovra azzardata di un automobilista davanti all’auto sulla quale viaggiavo insieme ad altri, provocò l’uscita di strada del nostro mezzo e una serie di cappottamenti.
In quel momento ascoltavo un CD di Cassandra Wilson, il brano che stava girando era una cover di “Fragile”, una canzone di Sting. Ogni particolare è ancora ben fermo nella mia mente, come la sequenza di un film.
Quando la nostra macchina smise di ribaltarsi, mi ritrovai immobile sul mio sedile. Sentivo come una scarica elettrica dalla testa ai piedi. Con la cintura di sicurezza ancora allacciata vedevo fumo, polvere e grida provenienti dai sedili alle mie spalle. La voce di Cassandra continuava a riempire l’abitacolo, come se nulla fosse successo.
In poco tempo fummo attorniati da persone con vestiti strani e dai colori accesi. Vigili del Fuoco, Carabinieri e operatori del 118 stavano facendo di tutto per aiutarci a uscire. A un medico chiesi di prendere Titina dal cofano e di portarla con noi. Il ricordo si ferma qui.
Al risveglio mi ritrovai su una barella in ospedale. Incrociai lo sguardo di mia madre in lacrime e per rasserenarla le dissi di non preoccuparsi perché ero in buone mani.
La sala era bianca, piena di luci. Non riuscivo a girare la testa, ma sentii qualcuno che diceva di procedere con il prelievo del sangue per verificare se avessi assunto droghe o alcol. Un altro medico gli rispose: “Certo, questa è la prassi. Ma, nel suo sangue troveremo soltanto note musicali, lo senti che sta fischiando?”
Già, fischiavo e non me ne ero nemmeno reso conto.
Seguirono giorni di febbre alta e magliette zuppe di sudore. Cominciai a prendere coscienza che non muovevo più nulla del mio corpo, nemmeno le dita della mano destra. Quelle stesse dita che accarezzavano Titina.
In quei trenta secondi la consapevolezza della mia nuova condizione prese il sopravvento. Bruciarono tutti i miei sogni, desideri e fatiche. Crollò tutto, come un castello di sabbia che si sfarina sotto l’urto di un calcio. Eppure, la mia vita non era di sabbia. Smisi di fischiare e in quella stanza d’ospedale, nel silenzio che in quell’attimo fragorosamente invase la mia mente, raggelai. Pochi secondi bastano per cambiare il senso interno della vita?
Mi resi conto che non avrei più potuto impugnare una matita per scrivere sul rigo musicale. Immediatamente un pensiero prese il sopravvento sugli altri: “Forse non potrò più suonare? Bene, scriverò, fischierò o canterò. Da qualche parte la musica che ho dentro dovrà pur fuoriuscire.”

Due giorni dopo, un po’ più lucido, ero attorniato dalle tante persone che venivano a trovarmi, come in processione. A uno di loro chiesi di procurarmi un computer e un programma che mi consentisse di scrivere con un comando vocale.
L’amico mi accontentò. Quel software, però, non era adatto a scrivere musica, ma solo testi. Dovevo accontentarmi e così cominciai a scrivere tutti i pensieri musicali che mi passavano per la testa. Tanto di tempo a disposizione ormai ne avevo abbastanza.
Continuamente pensavo a Titina e a un percorso musicale che il destino aveva interrotto.
Si trattava di un progetto al quale stavo lavorando con un ospite, Jan Garbareck. Un musicista molto importante della ECM. Il concerto si sarebbe dovuto tenere nella Grave, cioè la più grande delle Grotte di Castellana. Le musiche che avevo composto me le immaginavo eseguite da me e da Garbarek in quello spazio il suono sarebbe stato riverberato in maniera naturale, senza effetti artificiali. Non mi scoraggiai perché dentro di me ero sicuro che quel progetto era solo momentaneamente accantonato. “Ricomincerò a suonare la tromba” mi dicevo.
Dopo diciotto mesi di ricovero ospedaliero, tornai a casa, due mesi di pausa, poi nuovamente ricovero in un ospedale del Nord. Lì mi rivelarono che esisteva un metodo più veloce per operare, e scrivere, al computer. È quello che tuttora utilizzo. Questa soluzione tecnica mi ha dato anche la possibilità di scrivere musica. Decisi, quando ne venni a conoscenza e dopo essermi impratichito, che avrei scritto qualcosa dedicato al periodo che stavo vivendo e a quello che mi era successo.
Quattro anni dopo l’incidente, cioè nel 2008, venne a trovarmi a casa Giuliano Di Cesare, musicista e inventore di strumenti musicali nuovi e strani. Fino allora non aveva avuto il coraggio di incontrarmi perché temeva di non riuscire a reggere l’emozione di scoprirmi nella mia nuova condizione fisica. Con sé recava un misterioso borsone.
Parlammo tanto. Arrivò il momento in cui, timidamente mi chiese se volessi provare a suonare la sua tromba. Ero timoroso nel propormelo perché non sapeva come l’avrei presa. Prese la sua tromba dalla borsa e, tenendola con le sue mani, pose il bocchino sulle mie labbra chiedendomi di suonare. Fu un’emozione grandissima.
Appoggiata sulle mie labbra, la tromba emise dei suoni. Ci meravigliammo del fatto che erano intonati e lunghi. Entrambi immaginavamo che dopo così tanto tempo la cosa sarebbe stata impossibile. Tra i due Giuliano era quello più sorpreso. “Come è possibile?” chiese “Se non suono per due giorni faccio fatica a riprendere l’intonazione e tu, dopo quattro anni ci riesci benissimo”. Disse che ero un miracolo della natura, che ero nato con la tromba e che dovevo continuare a suonarla. In quel momento, io e lui, intuimmo che qualcosa potevamo riprenderci. Rompendo quel silenzio di meraviglia dissi: “Costruisci una tromba per me”. Non potevo sapere e nemmeno pensare in quale ardua avventura stessi coinvolgendo l’amico. Ma, lo conoscevo bene e sapevo che la mia richiesta, per quanto folle, avrebbe messo in moto la sua creatività e inventiva. Rispose che ci avrebbe provato, ma disse anche non voleva illudermi. Era impresa complicata e difficile.

Trascorsero quattro mesi e me lo vidi arrivare con una tromba da lui costruita e comandata da fili e cavi che avrei dovuto muovere con il residuo, debole, movimento dell’avambraccio sinistro. Non andò bene perché Giuliano aveva lavorato facendo riferimento alla forza del suo braccio e non a quella del mio. Seguirono altri prototipi e fallimenti, fino a quando pensò che se muovevo l’avambraccio avrei potuto suonare una tromba a coulisse, come si suona il trombone. Concentrò le sue energie e il suo tempo su questa nuova idea e quando la provammo, aiutato da una speciale imbracatura d’appoggio per lo strumento, la trovammo perfetta. La mia emozione, le nostre emozioni furono incontenibili. Potevo suonare di nuovo, il mio suono tanto amato e rimpianto, stava per tornare.
Nel 2009, dopo vari studi e prove con quella tromba, alla cui realizzazione collaborò attivamente anche mio padre, cominciai a pensare di suonare in pubblico.  Avevo scritto e completato le musiche di “Viandante” che accompagnavano i passi de “La Divina Commedia” di Dante. Volevo riprendere dal punto nel quale il destino aveva pensato, a torto, di interrompere la mia vita musicale. Cioè da quel progetto sospeso delle Grotte di Castellana. Quale luogo migliore per rappresentare la risalita dall’inferno nel quale ero precipitato e la luce della superficie?  Sembrava fatto apposta per me, adatto alla storia che stavo vivendo. Risalire alla superficie, verso la luce, ecco cosa stava accadendo. Stavo per tornare a fare musica e suonare, cioè a vivere. E così, nel 2010 il mio “Viandante” fu portato negli inferi della Grave.
Qualcuno dice che io sono un tipo tosto. A me piace, invece, definirmi “capatosta”. Infatti, il mio pensiero unico era Titina, la mia unica compagna di vita. Suonavo la tromba a coulisse, ma pensavo a Titina. Lei non mi ha mai tradito e, allora, nemmeno io volevo tradirla. Per questo motivo, con tutte le mie forze ho ricercato il modo di poter ritornare ad accarezzarla. Così è stato.
Nel 2012 fortuitamente e fortunatamente incontrai Roberto De Nicolò e Chiara De Felice informatici.  Pensai, insieme a mio padre, Giuliano Di Cesare, Fabrizio Giannuzzi, Bruno Marchi e Cinzia Marasciulo, tutti componenti della Associazione AccordiAbili, di unire l’informatica alla meccanica. Mi chiesi, dopo aver visto un video di un’automobile guidata con i comandi dati da una cuffia, “Perché non provare a fare qualcosa del genere con Titina?”
AccordiAbili accettò la sfida di questo sogno e costituì il team “E-Motion”, composto da informatici, ingegneri meccanici e robotici, musicisti. Un gruppo di sognatori che, di volta in volta, intende offrire ad altri che ne abbiano necessità, l’occasione di tornare a suonare o, perché no, di cominciare a suonare. Un gruppo di sognatori che con AccordiAbili nel 2014 ha ridato vita a Titina, che come la favola della bella addormentata nel bosco, riposava nella sua custodia vellutata.
Titina ha ripreso a vivere grazie a un joystick, nonché a un complicato intreccio di informatica, robotica e ingegneria meccanica, che io manovro facilmente e che mi consente di essere più veloce e preciso. Insomma, mi consente di suonare come a me piace.
Non si può descrivere cosa ho provato quando sono tornato insieme a Titina. Posso però dire che mai mi sono preoccupato o demoralizzato perché non posso camminare, lavarmi, vestirmi o, tanto meno, mangiare da solo. Il miracolo che desideravo, e che è stato realizzato grazie alla solidarietà e competenza dei tanti amici, vecchi e nuovi, che mi amano e che io amo, era solo uno: riabbracciarla e carezzarla di nuovo, trasmetterle la mia anima.

Adesso che siamo di nuovo insieme, penso a come ritornare su quell’alto scoglio dove io e Titina ogni giorno suonavamo per noi e il mare. Per il momento, quando suono, mi basta immaginare che siamo lì e un giorno ci andremo davvero.

Clelia Tesone

E m'abbandono all'adorabile corso: leggere, vivere dove conducono le parole. La loro apparizione è scritta; le loro sonorità concertate. Il loro agitarsi si compone, seguendo un'anteriore meditazione, ed esse si precipiteranno in magnifici gruppi o pure, nella risonanza. Una delle più belle citazioni di Paul Valery per molti, come me, che crescono tramite una pagina, che sia letta, scritta o studiata.

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