CARA di Mineo: oltre 4000 ospiti in una struttura per 1200.
Protestano i rifugiati del Cara di Mineo. Mulue, un giovanissimo eritreo di soli 22 anni, si è tolto la vita qualche giorno fa. Negli ultimi anni sono stati diversi i casi di tentato suicidio.
CARA è l’acronimo di Centro d’Accoglienza per Richiedenti Asilo. L’obiettivo di questi centri dovrebbe essere quello di fornire un servizio di base alla persona richiedente lo status di rifugiato, fornendo non solo assistenza medica e psicologia, ma anche strumenti per l’effettivo inserimento nella società accogliente. Molto spesso invece la storia dei CARA italiani, come in generale quella di tutte le strutture d’accoglienza, rivela come la legislazione paradossale vigente trasformi i centri in vere e proprie strutture di detenzione. Strutture che tendono all’isolamento e in cui sembrano sospesi i diritti fondamentali dell’uomo per individui che non hanno nessuna colpa e che l’Italia è tenuta ad ospitare secondo le convenzioni internazionali per i rifugiati. Gli ospiti detenuti, spesso sopravvissuti alla traversata del Mediterraneo, in fuga da guerre e devastazioni, faticano a instaurare un contatto con l’esterno anche perché frequenti sono i divieti imposti all’ingresso libero di avvocati, giornalisti e associazioni di volontariato.
La situazione è particolarmente spinosa a Mineo. Il CARA, aperto nel 2011 sfruttando il villaggio abitativo costruito dagli statunitensi allocati a Sigonella, ospita oltre 4000 persone di diverse etnie e nazionalità, nonostante l’accordo iniziale prevedesse un massimo di 1200 persone, e sorge in un’area completamente isolata dai centri abitati, nel bel mezzo della piana di Catania. La più vicina presenza di civiltà, oltre dai campi irrigati, è testimoniata dalla frequentatissima statale Gela-Catania. E proprio sulla statale si è spesso concentrata la voce della protesta, appoggiata dai comitati antirazzisti e da cittadini solidali che denunciano l’iniquità della struttura e ne vogliono la chiusura, a favore di un’organizzazione che prediliga centri di accoglienza più piccoli e che possano favorire un reale inserimento sociale, a costi, tra l’altro, decisamente inferiori. Scrive pubblicamente il direttore del CARA di Mineo Sebastiano Maccarrone:
Al Cara di Mineo ci sforziamo di creare le condizioni per una vita serena e le premesse per un inserimento nel territorio. Per questo motivo moltiplichiamo le iniziative che vedono gli ospiti interagire con la comunità, proprio per evitare quella ghettizzazione che da più parti viene additata come caratteristica strutturale dei centri di accoglienza e che noi siamo riusciti ad evitare.
Eppure un giovane di 22 anni si è tolto la vita e frequenti sono i casi di tentato suicidio. Il problema non consiste solamente nell’efficienza dell’accoglienza, ma nella prospettiva che il sistema italiano fornisce e che troppo spesso scoraggia ogni speranza. Il 19 dicembre è stata l’ennesima giornata di tensione e protesta da parte dei richiedenti asilo del CARA di Mineo. Un gruppo di circa cinquecento persone è uscito dal centro è ha bloccato la statale causando forti disagi. Secondo la legge i profughi non dovrebbero rimanere più di 35 giorni nei centri di accoglienza loro dedicati, ma le procedure per l’esame della richiesta di asilo politico di fatto durano mesi, se non anni. La polizia è intervenuta a disperdere i manifestanti con l’uso di lacrimogeni. Gli ospiti denunciano la scarsa assistenza sanitaria, la pessima qualità del cibo, la mancanza di mediatori linguistici, di non ricevere i 2,50 euro giornalieri che gli spettano, ma pacchetti di sigarette, e soprattutto la mancata assistenza legale nella fase complessa di richiesta d’asilo. Alcuni sostengono anche di non aver ricevuto i 500 euro dovuti in seguito all’esito positivo. La giornata si è conclusa con un’assemblea pubblica nella piazza di Palagonia che ha visto la partecipazione e la mediazione del sindaco e delle associazioni antirazziste (per un approfondimento continua a leggere su CtZen.it). La protesta è ancora in corso. Si attendono risposte immediate e concrete da parte delle istituzioni che, nonostante le lacrime versate in occasione dei morti di Lampedusa, non hanno ancora cambiato atteggiamento.
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