Cronaca

Racconto breve: La donna truccata

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Quel vecchio orologio a cucù (un oggetto vetusto che risulta essere una novità in un’era tecnologica come la nostra) scandiva inesorabilmente lo scorrere del tempo; arrivava quell’attimo in cui lei gli dava quel rapido sguardo, e si era pronti alla partenza. Nel silenzio frastornante della stanza il leggero ticchettio sembrava scandire i passi di un gigante da cui scappare, e più fluiva il tempo, più il passo si faceva affannante, pesante, vicino. La donna truccata era pronta per la corsa, e ad ogni passo del gigante la sua ansia cresceva singhiozzante, al pari della sua esaltazione.

Eppure tale ansia appariva inspiegabile: era la solita routine. I tempi, i soliti. La procedura, ormai consolidata. Le scelte, obbligate. Eh sì, perché era soprattutto lei ad obbligarsele. Il primo momento era già fatidico: l’incontro con sé stessa. Quello specchio, in certi casi, sembrava un rifugio: le lancette di quel vecchio orologio, in quel riflesso, scorrevano nel verso opposto, come se il tempo si stesse riavvolgendo; oh, quanto avrebbe voluto immergersi in quella dimensione, quanto avrebbe voluto che il tempo si riavvolgesse, quanto avrebbe voluto tornare indietro.

Adesso è una questione di colore: quale scegliere per esaltare quei bellissimi occhi azzurri che si ritrovava? Di solito si optava per il nero, perché nell’oscurità la luce non si deprime, si esalta, come il riflesso della luna sul mare. L’esaltazione è espressione di sicurezza, sfrontatezza, oppure si poteva optare per la dolcezza, per la levigatezza, ed usare quindi un colore chiaro, non accentuato, per dare quel tocco di mistero e di incompletezza, che istiga quindi ad una ricerca profonda e ossessiva. Poi toccava alle labbra: magari contornarle con quel rosso ombrato, per dare definizione e cura ai particolari.

Il gigante era sempre più vicino, ma più si avvicinava, più lei era pronta a sedurlo. Le gambe dovevano obbligatoriamente dare le vertigini, come se stessimo scalando il grattacielo più alto del mondo, ma doveva celare saggiamente la cima, nascondendola al momento giusto, altrimenti era inutile per chiunque intraprendere l’ardua salita. Il percorso doveva essere irto e tortuoso, perché il traguardo fosse il più soddisfacente possibile.

Lei diede poi le spalle al tempo: era arrivato il momento. L’esaltazione e l’ansia raggiungevano lo zenit nel momento appena precedente il termine dell’attesa, eppure non doveva andare così. L’abitudine annerisce le emozioni, le trasforma in consuetudini, come un film già visto, come un colpo di scena già vissuto. Quella sera era diverso. La sensazione era che qualcosa potesse cambiare, che quella triste canzone, che la vita ti ha costretto ad ascoltare migliaia di volte, cambiasse proprio alla fine e che, di colpo, ti facesse scoppiare in lacrime dalla felicità.

Anche lui era vittima della solita routine: una giornata stressante di lavoro, un bagaglio d’insicurezze, dentro un taschino di certezze. Al suo interno c’erano principalmente soldi, che in quel caso, equivalevano a divertimento. Lui non credeva più nell’amore, ed un uomo senza fede, è perduto. La strada da intraprendere, anche quella era la stessa, perché strada vecchia non si cambia: quella volta decise di cambiarla. Chissà, per vedere qualche faccia nuova oltre che le solite.

Lei era lì, all’angolo della strada, alla solita posizione, pronta ad aspettare; quegli uomini avrebbero varcato l’uscio della porta di casa sua alla stessa velocità con cui lei li avrebbe dimenticati. Lui, d’altro canto, aveva ormai chiuso col lucchetto quel cassetto pieno di fiducia: il cuore era spezzato, e la delusione aveva nascosto quella chiave chissà dove. L’angolo della strada era lì, poi un sussulto.

I loro cuori sembravano due martelli pneumatici, pronti a levigare quella strada che sembrava ormai impraticabile: quella luna azzurra riflessa nel mare notturno proiettava lui su pianeti fin’ora ancor sconosciuti, e per raggiungere quella galassia sapeva che non bastava arrampicarsi su quella scalata; la solita canzone che lei ascoltava, invece, quella maledetta e triste canzone, confusionaria e caotica come milioni di chitarre impazzite, si era trasformata in una dolce sonata al pianoforte.

Il prezzo era un dettaglio: quando quell’orologio a cucù li accolse capì egli stesso che, probabilmente, presto non avrebbe più scandito il tempo per lei.

Giuseppe Senese

Sono un laureando in Scienze e Tecnologie Informatiche, che nutre anche numerose passioni come la musica, il cinema e il calcio. Adoro il Rock Progressivo degli anni 70' (soprattutto quello britannico e quello italiano) e sono un tifoso sfegatato del Napoli.

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