Elezioni e parallelismi. Italia e Kenya
Elezioni.
Non posso fare a meno di fare parallelismi. Ieri in Kenya, in Italia dieci giorni fa. E, mentre nel nostro Paese continuano le polemiche, i vincenti che hanno perso o i perdenti che hanno vinto, le riflessioni, la vergogna verso il resto del mondo, la paura di tornare presto alle urne, una maggioranza che c’è ma non c’è, gli scandali che non mancano, l’astensionismo che sale, io vedo foto come queste e mi fermo.
Sono in coda dalla notte, 14,3 milioni di kenioti attesi alle urne; i seggi aprono alle 6 e loro, per non perdere la giornata di lavoro, attendono ore nel buio. Noi ci asteniamo, loro fermi nelle tenebre. Ore. In Italia si vota di domenica, giorno di festa, in Kenya di Lunedì, giorno di lavoro. Talvolta la vergogna è poca cosa. Già, è inutile dire che il clima politico italiano non è dei migliori; perché non ci soffermiamo a ricordare cosa era successo in Kenya dopo le ultime elezioni, quelle del 2007? Violenze che portarono alla morte di oltre 1100 persone. La paura non è servita come deterrente per tutte queste persone in fila, file che sono continuate fino alla sera. Sono persone che hanno deciso che il loro diritto di voto è più importante di qualunque altra cosa.
Il clima in Kenya è, come prevedibile, molto teso, tutti gli otto candidati alla presidenza hanno fatto un appello per far mantenere la calma, il governo ha distribuito sul territorio ben 99 mila poliziotti in servizio e 2600 osservatori internazionali per evitare tragedie. Anche Ushaidi, la piattaforma digitale utilizzata per monitorare i momenti di probabile crisi, è allertata. Non è stato forse sufficiente, sono morte 17 persone ancora prima che i seggi fossero aperti, a causa degli scontri tra polizia e attivisti del gruppo MRC Mombasa Republican Coucil, nella notte tra il 3 e il 4 Marzo.
Tutte queste misure, di cui non nego l’importanza, sono necessarie, ma poi vi trovo controsensi e non capisco più; tra i due favoriti c’è Kenyatta, attuale vice primo ministro. Accusato dalla Corte Penale Internazionale per i Crimini di Guerra a causa di un possibile coinvolgimento nell’ondata di violenza del 2007. Secondo gli ultimi exit-poll è attualmente in vantaggio, ma sono stati già denunciati brogli. Come possano sussistere al contempo entrambe le posizioni -candidato favorito e indagato di crimini di guerra- non capisco. E di nuovo un parallelismo mi sale spontaneo.
Sempre elezioni 2013, Italia. Il paese in cui i finti scandali fanno scalpore, ma parlare di quelli veri non va di moda. Questa volta siamo in tema di Regionali, perché non sono solo Bersani, Berlusconi e Grillo a temere un voto anticipato. Anche nel Lazio la giunta di centrosinistra guidata da Zingaretti rischia vita breve. La “colpa” è di un ricorso al Tar, presentato unitamente dai Radicali e da Sel agli inizi di Gennaio, riferito a uno degli ultimi atti della giunta Polverini. Quando il governo Monti ha imposto alle regioni di tagliare i costi, con conseguente diminuzione del numero dei consiglieri, la Polverini, invece di modificare l’ordinamento regionale -come avrebbe dovuto- ha direttamente emanato un decreto legislativo che portasse i consiglieri da 70 a 50.
Il Tar ha dovuto accettare il ricorso riconoscendo l‘incostituzionalità del decreto Polverini ma lo ha posticipato a dopo le elezioni. Giuseppe Rossodivita, che è tra gli estensori del ricorso, riflette su questo posticipo, durante un’intervista con Linkiesta.
Se fossimo in un paese nel quale il diritto prevale al 100%, sull’accoglimento del ricorso non ci sarebbe nessun dubbio perché tecnicamente non c’è altra via d’uscita. Ma i giudici sono soggetti a pressioni politiche, per cui la cautela è d’obbligo.
Adesso c’è la possibilità che la Regione torni alle urne il 26 e il 27 Maggio, insieme all’amministrazione comunale di Roma. Anche Zingaretti, coinvolto poco tempo fa nello scandalo -ancora non concluso- Zingarettopoli, prima dell’elezione era d’accordo con il ricorso, adesso, per lo stesso, rischia di perdere la sua maggioranza.