Mary Shelley: buon sangue non mente
A Vindication of the Rights of Woman, titolo altisonante per un’opera quasi sconosciuta, edita nel 1792.
In essa si tratta approfonditamente il tema dell’educazione, come perno indispensabile per la creazione di una buona consapevolezza sociale e politica nell’individuo; la formazione deve essere, non solo uguale tra uomini e donne, ma anche impartita in classi miste. La donna non deve fungere da puro piacere per l’uomo, ma sposa in quanto compagna, essendo ella diversa solo nella fattezza fisica.
Queste parole varrebbe la pena conoscerle meglio, sono quelle di una pensatrice inglese, recante il nome di Mary Wollstonecraft, una vita breve quanto intensa. E se di lei pochi si ricordano, val bene il principio che buon sangue non mente. Cresciuta in una famiglia povera, segnata dall’alcolismo e dalla violenza del padre, con formazione eminentemente autodidatta, troverà l’amore in Sir Godwin, precursore dell’anarchismo. Con lui concepirà la sua seconda figlia, morendo purtroppo pochi giorni dopo il parto; la bambina, anch’essa Mary, diverrà famosa con il cognome di Shelley, e ancor di più con il suo romanzo Frankenstein.
Mi sembra però molto riduttivo identificare questa donna soltanto con il suo più grande romanzo, senza considerarne la complessa biografia.
Crebbe in una famiglia allargata, risentendo l’influenza delle idee fortemente innovative e provocatorie del padre e avendo la possibilità di leggere molto presto le opere della madre.
Ebbe un’istruzione quanto mai inusuale e completa, solo un esempio, conobbe Coleridge nella casa paterna, ancora bambina; tutto ciò fece largamente presa nella giovane e fervida mente. Queste sono le premesse per presentarvi una ragazza molto intelligente e determinata, ribelle per antonomasia all’ordine precostituito, con idee libertarie e progressiste in ogni ambito.
Aveva 16 anni, fuggi da casa con l’amato Percy, discepolo di Godwin, da qui prese il cognome, ventenne già ammogliato.
Aveva 24 anni, dopo molte gravidanze finite nel sangue, si ritrovò vedova con un figlio piccolo, l’unico sopravvissuto, in contrasto con il padre ed il suocero.
I sei anni che intercorsero potrebbero benissimo far da trama a un romanzo rocambolesco; anni di pellegrinaggi in giro per l’Europa; anni di fervide amicizie letterarie, con esponenti del romanticismo; anni di miserie, in fuga dai creditori; anni di una profonda passione, nonché legame intellettuale reso turbolento dal principio del libero amore.
E dopo? E dopo Mary continuerà a scrivere e a curare le opere del marito morto, preoccupandosi unicamente di crescere suo figlio al meglio, tra aiuti e screzi da parte del suocero, nuovi amori, amicizie e continue malattie.
Elogiare o biasimare questa donna?
Non credo serva; una superba artista, il cui valore fu riconosciuto solo a posteriori, che, attraverso un’esistenza talvolta estrema, non ha mai rinunciato alle sue più profonde convinzioni e alla sua identità, in un’epoca, ricordiamolo, ben più difficile dei giorni d’oggi.
Semplicemente questo la fa grande.