Didone
«L’altra è colei che s’ancise amorosa
e ruppe fede al cener di Sicheo»
È Dante che parla, siamo nell’inferno, perché si sa, i migliori incontri avvengono laggiù, canto V, poco prima di incrociare le anime di Paolo e Francesca. Proprio da colei vorrei partire a parlare di donne, le donne il cui spessore ha fatto la nostra cultura, di colei se ne è parlato molto, ma non troppo, considerando l’importanza della sua figura. Colei è Didone e ammetto, io la amo quasi come nessun’altra, non so se è il fascino del nome latino Dido-Didonis che mi suona bene nelle orecchie, il bellissimo testo di Virgilio, ed ecco svelata un’altra mia debolezza, le tante mirabili rappresentazioni iconografiche – in foto, La morte di Didone di Rubens, e con questo pittore simo a tre – su un topòs così comune, oppure semplicemente la forza intrinseca dello stesso simbolo.
Procediamo dunque con ordine.
Nella mitologia classica incontriamo Didone come figlia del re di Tiro, Belo, e sorella di Pigmalione. Questi uccise il marito di lei, Sicherba – diventerà Sicheo successivamente nell’Eneide – per impadronirsi del potere e delle ricchezze del genero. Didone fuggì, probabilmente per evitare una guerra civile, e con lei molti nobili del regno. I pellegrinaggi toccarono Malta e Cipro ma la comitiva, guidata dalla regina, si fermò solo in Nord Africa. Qui, Didone chiese al re del luogo, Iarba, di poter fondare una città e questi le concesse tanto terreno quanto ne comprendesse una pelle di bue, volendo, ovviamente, prendersi gioco di lei. Ella tagliò dunque una pelle di bue in tante striscioline finissime e ne fece una corda; riuscì così a cingere un promontorio di circa 22 stadi, all’interno del quale fondò Cartagine. La leggenda richiama in questo modo il soprannome greco della città, Brisa, che significava appunto pelle di bue.
Didone, regina incontrastata nella nuova città, si rivelò di buone doti governative e giusta verso i suoi concittadini, tanto che venne divinizzata dal suo popolo con il nome di Tanit, ossia la Dea protettrice della città, considerata ipostasi, ossia materializzazione sotto un’altra forma della dea Astarte, Grande Madre Cartaginese protettrice della fertilità e della guerra, come una sorta di Giunone romana.
Venne inoltre chiesta in moglie da Iarba e dai principi dei Numidi perché aspiravano al suo grande potere ma, come racconta Giustino nel III secolo d.C. la regina finse di accettare ma si uccise con una spada invocando il nome del marito Sicherba. Su questa figura s’innesta la Didone virgiliana che, dopo aver fondato Cartagine, non presta fede al giuramento di rimanere fedele al marito morto, ma s’innamora del troiano Enea, che proprio a lei racconterà tutte le tappe iniziali del suo viaggio. Quando Giove, tramite Mercurio, imporrà a Enea di andarsene, Didone lo maledirà, uccidendosi con la spada dello stesso Enea e gettandosi sulla pira sacrificale. Con la maledizione, Virgilio, da una parte trova una giustificazione mitologica alle guerre cartaginesi, dall’altra ci presenta la figura umanissima della regina che lamenta una mancata maternità.
È sopratutto questa immagine di amante non amata che che arriva alla cultura romana.
Ma per noi, chi è Didone?
Io in lei vedo la figura della donna nella sua complessità, regina abile e scaltra quando serve, per salvare il proprio popolo e garantirgli una nuova terra, amministratrice e sovrana amata e venerata, ma anche donna innamorata e non ricambiata, donna innamorata e non rispettata, donna innamorata e abbandonata, donna divisa tra il dovere e il volere, modernissima nel suo conflitto tra la sfera pubblica e quella intima; Didone è ogni donna che non vuole sacrificare la maternità a causa di un lavoro poco stabile, Didone è ogni donna che per amore va oltre le convenienze rischiando ogni cosa, Didone è ogni donna che ha il coraggio di sacrificare tutto in nome del proprio cuore.
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