Rivoglio la Poesia anche in guerra
Spesso mi sono trovata nella situazione di sorprendermi di fronte a dei punti interrogativi che nascono nella mia mente mentre ascolto parole uscire dalle bocche di professori che restano seduti per ore a cercare di spiegare ciò che è stato già spiegato mille volte, che è passato tra le mani di troppe persone, ora che forse non c’è più niente da dire ma solo da contemplare, qualsiasi altra parole risulta nella mia mente frivola e solo da contestare.
La grande letteratura, la bella letteratura, i paesaggi che si perdono nelle avventurose vite di personaggi nati per sviluppare la fantasia umana ora sono attaccati dalla modernità, dalla scelta di volere per forza affidare alla poesia una militanza politica e sociale. Perché i neorealisti riuscivano ad essere allo stesso tempo dentro e fuori la realtà, perché loro riuscivano a rendere poetica la guerra mentre ora la poesia è guerra?
Guerra di contrasti, direi, sono parole – poesia e guerra – che non dovrebbero coesistere in uno stesso testo, in una stessa frase, in uno stesso pensiero. Eppure oggi sono gli stessi “letterati” ad usarle insieme, ma non per contestualizzare un concetto poetico, piuttosto per sottolineare come quel determinato autore o testo siano nati sotto l’influsso politico o altro influsso poco edificante a mio modesto parere.
Non riesco ad ascoltare, non riesco a sopportare l’uso che della letteratura si fa oggi, un tempo gli intellettuali venivano affidati ai governi per gestire le scelte di stato, un tempo i “ letterati” avevano una valenza sociale tale da decidere le sorti di una guerra, i bambini venivano affidati ai filosofi, oggi chi si iscrive alla facoltà di filosofia viene addirittura deriso! Ma quando è successo questo, quando le parole hanno perso la loro valenza sacrale? Io dico che è stato il capitalismo – e dire che esiste addirittura una critica letteraria del capitalismo, altre parole che non dovrebbero coesistere! – ma contestualizzato, nel senso che l’essere umano non si trovava nella condizione mentale di poter affrontare nella maniera più intelligente possibile un cambiamento cosi importante come quello apportato dall’accumulo di ricchezza, dall’investimento di essa.
L’essere umano è entrato quasi in uno stato di coma profondo dettato dall’avvento del “plus valore” , la scoperta di valore da parte dei più deboli, va bene … ma il punto non è questo, il punto è … in tutto questo, dov’è finita la poesia? Qualcuno la riesce a trovare in questa giungla di corsi e ricorsi commerciali ecc ecc? Io si, ma studio lettere e sopravvivo grazie alla poesia, sono di parte, eppure nelle mie aule aleggia Marx, come può questo essere materiale inserirsi in qualcosa che di materiale non dovrebbe avere nemmeno l’ombra? Mentre si parla dell’Orbecche non si può parlare di tagli finanziari, non si può? Dov’è la poesia?
Io la rivoglio. Rivoglio il trittico trecentesco di Dante, Petrarca e Boccaccio, voglio sentire la gente perdersi nelle rime, nelle metafore del simbolismo e dell’allegoria. Voglio che la realtà venga fuori piano mentre qualcuno paragona la sua vita ad un giorno di pioggia, si … voglio carpire la sua tristezza così e la sua felicità mentre parlando con me per strada si volta ad osservare il tramonto, voglio che la gente si soffermi sulla poesia delle cose che apparentemente possono sembrare vuote di significato, ma in realtà ogni singolo momento può avere la sua allegoria se solo noi siamo così aperti da riuscire a vederla.
Non potevano farlo solo Dante, Buzzati o Baudelaire, possiamo farlo anche noi, anche ora che i modelli non esistono più, anche ora che l’uomo si trova a dover cercare le riposte dentro e non fuori, ora è il momento giusto per riscoprire la vera natura poetica dell’uomo, ora c’è bisogno di ricominciare ad osservare le foglie gialle che cadono dagli alberi e pensare che effettivamente “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”.
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